#ItalianLockdown – effetti e cause della “giusta motivazione” in sostituzione delle prassi mediche

Lockdown: il mondo s’è fermato! Han premuto il tasto “Pausa”. Ma a ben vedere c’è lockdown e lockdown e non sono mica tutti uguali. Se osservato bene, il modo in cui ogni paese applica, gestisce e narra il modo in cui gestisce l’emergenza rivela molte più cose di quanto sembri a prima vista.
Pure quello che ci riguarda, il lockdown all’italiana, è una lente di ingrandimento che amplifica problemi, storture, rapporti di potere, arretratezze, bagaglio culturale, opinioni diffuse, tipicità, errori ricorrenti, tic narrativi e possibili errori futuri del Belpaese. Ecco perchè vale la pena osservarlo a trecentosessanta gradi.
INDICE
Non trovi il cerotto? Allora amputiamo!
Come osi?
C’era una volta un virus
Colpisci il capro! Colpiscilo! Ancora, ancora!
#ConfinatiInCasa a causa di un sistema emergenziale inadatto
Italian Lockdown
Chinese Lockdown
Stendere il virus con multa e manganello
Il virus circola, la polizia vuole #TuttiAlChiuso
Schizofrenia mediatica
Sicurezza sanitaria o giusta motivazione?
Italiani incontrollabili?
Gli untori solitari
Gli untori di massa
I Teleassembramenti
Oltre i teleassembramenti
Profezie autoavveranti
Aria, Asfalto, Asintomatici, Mascherine
The day after
Non trovi il cerotto? Allora amputiamo!
Siamo nel bel mezzo di una pandemia globale gestita con modalità assai diverse a seconda della nazione o regione coinvolta. Modalità in molti casi caratterizzate da approcci impacciati e contraddittori se non addirittura criminosi ma che nella maggioranza dei casi rivelano la debolezza sistemica di diversi paesi che si son trovati improvvisamente a dover subire gli effetti dei propri problemi strutturali. Problemi che, nel loro insieme, stan contribuendo a rendere quest’emergenza assai peggiore di quanto potrebbe essere se gestita in modo piò oculato e se certe cose fossero state già risolte.
A grandi linee questi elementi possono essere riassunti in:
– Mala gestione di chi inizialmente non ha saputo valutare o addirittura ha tentato di negare la gravità della situazione.
– Il mancato ascolto di chi, nei decenni passati, ha più volte avvertito del possibile pericolo di diffusione su scala globale di pandemie e della necessità di prepararsi all’evenienza. Mancato ascolto che non ha fatto sufficiente tesoro dell’esperienza maturata nel corso di episodi simili come ad esempio la diffusione di SARS e MERS, dell’aviaria, della febbre suina e di quella bovina, giusto per citare i più recenti. Ciò ha fatto sì che gran parte dei paesi industrializzati s’è dovuta rendere improvvisamente conto di non avere piani di contenimento sufficienti né procedure adeguate da seguire; di non avere né scorte di materiale indispensabile né sistemi autonomi per produrlo. Il tutto si è così tradotto in gestioni improvvisate ed emergenziali fatte spesso un tanto al chilo, come ad esempio le iniziali disposizioni di lockdown regionali in cui si son viste chiudere le scuole ma non i centri commerciali o le restrizioni all’uso di tamponi e mascherine emesse perché non c’e n’erano abbastanza.
– La mancata presa di coscienza della catena di correlazioni che unisce con un filo rosso la distruzione di interi ecosistemi, le condizioni igieniche spaventose dell’industria dell’allevamento e la diffusione di pandemie, così come il costante peggioramento della qualità dell’aria, da più parti indicato come molto probabilmente correlato all’incidenza del contagio.
– Una politica economico-finanziaria che in occidente ha indebolito la sanità pubblica, l’istruzione (medica e non) e l’istituzione di sistemi di prevenzione per emergenze aperiodiche mentre nei paesi più poveri ha impedito lo sviluppo di sistema sanitari adeguati. Le disuguaglianze derivanti dagli attuali sistemi di produzione ora verranno pagati a carissimo prezzo a livello planetario rivelando ancor di più la necessità di ridurre tali disuguaglianze: i paesi più poveri ora rischiano di diventare degli immensi focolai a scapito delle persone più deboli facendo tra l’altro anche saltare la produzione di quei beni su cui è fondato il sistema di produzione stesso.
– Comparti economici che hanno lavorato attivamente contro ogni forma di contenimento e prevenzione anteponendo il proprio interesse speculativo ad ogni altra cosa, al costo di negare l’epidemia. Il caso della mancata zonizzazione della Val Seriana per salvaguardare le sue industrie e manifatture ne è un esempio evidente.
– Media mainstream eccessivamente dipendenti da interessi economici che, senza soluzione di continuità, inseguono e cavalcano notizie che alimentano il panico ma al tempo stesso diffondono messaggi tranquillizzanti, aumentando a dismisura quella schizofrenia delle notizie che immancabilmente si ripete nelle situazioni. Panico e allarme che oggi trovano nei media mainstream commerciali un terreno perfetto per la loro diffusione.
– La scarsa coordinazione internazionale per problemi di ordine globale. Ciò che avviene con la pandemia del SARS-CoV-2 ripropone in scala accelerata ciò che avviene da decenni riguardo all’emergenza climatica, ossia la mancata applicazione del concetto che in un mondo globalizzato, i problemi e le cattive condotte di UN paese sono un problema drammatico per TUTTI i paesi. Mancata coordinazione che il mondo scientifico s’è immediatamente adoperato per superare mentre al contrario diversi governi si ostinano a rifiutare, chiudendosi a riccio e cogliendo l’occasione per imporre agende nazionaliste.

Documento del 22 dicembre 2010 in vui veniva valutata la gestione della pandemia del virus H1N1 nella regione Lombardia rilevando già in quella data numerosi problemi (LINK a file PDF)
Il risultato è sotto gli occhi di tutti: paesi e regioni che eseguono test a tappeto, altri eseguono test mirati ed altri ancora che faticano a procurarsi il materiale per eseguire i tamponi; criteri di conteggio differenti che non possono essere paragonati tra loro sballando rilevazioni e statistiche; quotidiani e politici che hanno alternato allarmi eccessivi a pericolose e immotivate banalizzazioni; morti che vengono celate o fatte passare per non attinenti al coronavirus; regioni ricchissime ridotte al collasso da sistemi sanitari perlopiù privati o semi-privati che vengono aiutati da ONG e paesi decisamente più poveri ma che hanno sistemi sanitari pubblici; medici ed infermieri che cercano di fare quel che possono con quel poco che hanno (mancanza di personale, dispositivi di protezione, posti letto, ospedali da campo…) e che quindi si contagiano e muoiono; amministratori locali impanicati che per reazione strafanno optando per soluzioni militari eccessive coadiuvate da forze di polizia che applicano divieti privi di valenza medica, contraddittori e/o completamente assurdi. Big tech, Grande Distribuzione Organizzata e comparti della logistica e del delivery che sfruttano l’occasione per lucrare grazie alle proprie posizioni dominanti e che aumentano il proprio campo d’azione ed ingerenza su economia e politica (Google, Twitter ed Apple hanno già annunciato che inizieranno iniziative volte a facilitare il tracciamento degli utenti).
L’industria della sorveglianza che coglie la palla al balzo per far testare sui civili tecnologie di controllo con l’entusiastica partecipazione delle forze di polizia e movimenti politici destrorsi che premono affinché i governi implementino soluzioni di sorveglianza digitale nonostante si siano rivelate di dubbia utilità in quanto le prassi applicate nei paesi che meglio han saputo rispondere all’emergenza erano valide anche a prescindere dei tracciamenti digitali.
Come osi?
Capiamoci, una pandemia globale è un evento imponente e drammatico che per forza di cose genera allarme e problemi di diverso tipo portando immancabilmente a restrizioni, limitazioni e grossi problemi di varia natura indifferentemente dal tipo di sistema politico/economico/sanitario/organizzativo che ci si è dati.
Detto ciò bisogna però ribadire che il modo in cui un’emergenza viene gestita può fare una grandissima differenza: una gestione sensata e ben organizzata dell’emergenza è certamente più efficace di una gestione improvvisata ed eccessiva. Pur non esistendo formule magiche né sistemi perfetti che avrebbero certamente evitato tutto ciò con equanime consenso di medici, economisti, lavoratori, politici, movimenti per i diritti civili e quant’altro, osservare quello che in questo momento non sta funzionando a dovere è un passo indispensabile per poter fare meglio ed evitare di proseguire su strade che causano infiniti danni collaterali di ordine sociale, psicologico, economico e politico.

Un “criticone”
Non v’è alcuna alternativa: il miglioramento dell’esistente può iniziare solo da una critica dello stesso. L’importante è che questa critica sia ragionata ed aperta alla confutazione. Senza critica, insomma, si accetta che storture ed errori proseguano anche in futuro così come sono o, peggio, se ne avalla pure l’enfatizzazione.
Ciò che differenzia una sana critica da indignazione, sfogo e vuota polemica risiede nella qualità dell’analisi: una critica durissima ma sensata, logica, precisa e documentata è certamente un qualcosa di più utile e rispettoso di qualsiasi forma di supporto acritico e tolleranza di facciata. Criticare la gestione dell’emergenza comporta necessariamente anche la messa in discussione delle sue premesse, ossia di quegli elementi preesistenti che hanno impedito fin dall’inizio di mettere in campo una gestione migliore. Non solo: la critica non può esimersi nemmeno dall’evidenziare quegli elementi dell’attualità che preannunciano inquietanti sviluppi che si potrebbero manifestare in futuro.
C’era una volta un virus
C’è molto da dire sul modo in cui questa pandemia è stata narrata dai grandi media mainstream. Concentrandoci sull’Italia, dopo un iniziale spaesamento in cui abbiamo visto quotidiani, politici e associazioni industriali alternare confusamente urla di panico ed appelli alla normalità, nell’arco di qualche settimana la narrazione mainstream della pandemia s’è andata più o meno assestando su alcuni punti e formule fisse (ma non va dimenticato che le narrazioni non smettono mai davvero di evolvere).

Con un video pubblicato il 28 febbraio, la Confcommercio di Bergamo lanciava questo hashtag e la relativa campagna mediatica
Sulla costruzione di questa narrazione dominante sono necessarie numerosissime osservazioni perché al suo interno confluisce un po di tutto: dalle premesse sul sistema economico ai tic ricorrenti della narrazione nazionale italiana, dalle contraddizioni sistemiche ai format discorsivi sul decoro ecc.
Osservazioni su tutti questi aspetti non son certo mancate in queste settimane: articoli, discussioni online, podcast e trasmissioni radio estremamente puntuali capaci di cogliere ed esporre questi diversi elementi e le loro sfacettature, mettendone a nudo contraddizioni, storture e non-detti. Osservazioni che purtroppo non sorprende abbiano trovato poco o nessuno spazio sui media mainstream, troppo dipendenti da quegli stessi interessi economici e politici dominanti interessati a confermare lo status quo.
Ma se i media mainstream non danno troppo spazio a queste argomentazioni possiamo almeno farlo qui, segnalando giusto alcuni articoli consigliabili::
Cent’anni di isolamento: come l'”emergenza nomadi” prosegue nell’emergenza coronavirus
Coronavirus: cosa sta succedendo?
Diario virale 1 – I giorni del coronavirus a Bulågna
Diario virale 2 – Bulågna brancola nel buio delle ordinanze
Diario virale 3 – Contro chi sminuisce l’emergenza
“Fate parlare gli esperti” Chi si deve occupare di una pandemia?
I veri numeri del contagio a Brescia e in Lombardia
L’Africa rischia di perdere anni di progressi nella lotta contro la povertà
La lotta di classe dietro la pandemia
La viralità del decoro – controllo e autocontrollo sociale ai tempi del Covid-19 (prima puntata)
La viralità del decoro – controllo e autocontrollo sociale ai tempi del Covid-19 (seconda puntata)
L’Organizzazione Mondiale della Sanità nell’occhio del ciclone
Per un socialismo del disastro
Proteggere i detenuti è fondamentale per arginare il virus
Quando e come finirà l’isolamento?
Serve un’amnistia per sfollare le carceri
Sul terrore a mezzo stampa – “il virus è nell’aria”, un titolo che farà molti danni
Solo la politica può evitare l’apocalissi
Sul terrore a mezzo stampa – le foto delle vie piene di untori
Un nuovo mondo per la collaborazione scientifica
Una società grande quanto un supermercato
L’unico elemento che al momento pare non esser stato trattato con troppo interesse, forse perché dato per acquisito dalla maggior parte dei commentatori, è l’impatto che ha avuto negli anni passati la diffusione nel discorso pubblico delle idee NoVax, che hanno preso in ostaggio delle giuste critiche sulle storture di un’industria farmaceutica in mano alle multinazionali, facendone però il tramite per timori antiscientifici privi di fondamento.
Timori cavalcati e sfruttati da politici poco lungimiranti giusto per questioni di bassa strategia e che han contribuito a diffonderli trasversalmente nel discorso pubblico influenzando di conseguenza l’intero mondo politico rendendolo così meno propenso ad tener in considerazione le richieste del mondo scientifico.

Il mondo è a colori: non in bianco e nero nè in scala di grigi
Va aggiunta un’ulteriore postilla che purtroppo non è così scontata, specie tra chi solitamente non è propenso all’analisi critica e metodica della realtà: la critica in sè non corrisponde necessariamente alla negazione dell’oggetto preso in considerazione. Purtroppo il livello discorsivo diffuso tende ad appiattire e banalizzare la critica dello status quo per rifiutarla in toto e non affrontarla.
Detto in soldoni: criticare il lockdown non equivale a dire “tana libera tutti: comportiamoci come se la pandemia non esistesse” allo stesso modo per cui essere contrari alla violenza non equivale necessariamente a rifiutarsi di tirare un cazzotto in faccia a qualcuno che minaccia di ucciderci.
La realtà è complessa, ambigua, contraddittoria e densa di sfumature. Rifiutae ciò e banalizzarla in un ritratto in bianco e nero (“o stai con le misure imposte dal governo o sei uno scellerato”), è il modo migliore per non vederla così com’è e, di conseguenza, non esser mai in grado di migliorare alcunchè.
Allo stesso modo è svilente e deviante l’uso del “ricatto della soluzione”, ossia il rifiuto della critica attuato imponendo a chi osserva un malfunzionamento di fornire allo stesso tempo anche soluzioni immediate. Insomma: non sono un meccanico ma se mi accorgo che i freni della macchina non funzionano e dico a gran voce, non ha molto senso zittirmi con “troppo facile criticare i freni se non sai ripararli!!11!!1!!1”.
Colpisci il capro! Colpiscilo! Ancora, ancora!
Nelle situazioni di panico e pericolo, la ricerca di un capro espiatorio è una ricorrenza tristemente consueta, tanto più quando il pericolo è generalizzato ed impalpabile. Il bisogno di scaricare la propria rabbia e frustrazione contro una figura definita e tangibile sulla quale poter appiccicare la colpa per eventi che in realtà hanno cause molto complesse e ramificate nasce da impulsi emotivi antichi e profondi che nel corso dei millenni si son manifestati nelle forme più varie.
Dopo gli attentati dell’11 settembre, ad esempio, l’impossibilità di correlare rabbia e timori tanto immensi contro uno sparuto numero di terroristi o verso le entità politiche che hanno sfruttato tali eventi per portar avanti la propria agenda imponendo una narrativa incentrata su patriottismo e militarismo, la reazione è stata quella demonizzare in modo generalizzato l’intero mondo arabo e/o islamico.
I media mainstream, che si attengono alle regole del mercato ed alle linee editoriali imposte dalla proprietà più che che all’analisi critica del mondo, non fanno altro che cavalcare questa generalizzazione gettando benzina sul fuoco ed alimentando queste reazioni insensate.
Insensate ma utili all’agenda politica degli editori e della proprietà dei grandi media, attentissima a “dare il La” alle discussioni da social decidendo gli argomenti di cui far parlare la popolazione e/o impostando la chiave con cui leggere gli eventi.
Ciò può esser osservato anche nel modo in cui i maggiori media italiani cavalcano, alimentano ed indirizzano il sentimento anti-migranti in funzione di interessi politici e non per reale interesse nei confronti di queste persone.
Tutto ciò genera un circuito chiuso in cui media, social network e politica si alimentano e confermano a vicenda senza lasciar spazio a critica alcuna, consolidando lo status quo.
Liberarsi dalla narrazione mainstream quindi è un’impresa assai impegnativa, sia per la difficoltà di affrontare analisi complesse ed imparare ad informarsi in modo preciso e metodico che per il fatto che la narrazione mainstream non è necessariamente fatta di notizie false ma si caratterizza soprattutto per la sproporzione data ad elementi del reale. In sostanza i grandi media, più che a raccontare menzogne tout court tendono ad alterare la realtà dando grandissimo peso ad alcuni fatti reali selezionati, “inquadrandoli” in un certo modo o, soprattutto, per semplificazione, ossia fornendo informazioni reali parziali e scontornate dal quadro generale, in modo da poterle usare in un quadro completamente diverso.
Per capirci basterà citare l’esempio dei dati sulla criminalità in Italia che pur essendo costantemente in calo da decenni vengono narrati dando enorme peso solo a quella parte di dati che, estrapolati dal loro contesto, possono essere enfatizzati per dipingere un quadro opposto alla realtà: il leggero aumento temporaneo di un certo tipo di reato, presentato dai quotidiani come “record di furti” impone con tre parole una falsificazione percettiva della realtà attraverso dati reali decontestualizzati. Smontare tale narrazione è sempre possibile ma richiede necessariamente un gran sbattimento per poter reinserire quel dato nel contesto originario e si scontrerà con un’opinione pubblica che quel dato già lo conosce e quindi ciò che andrà decostruito non è il dato in sé ma l’intero contesto in cui è inserito.

Il temibile e temerario babau giallo che ha tenuto in scacco il Veneto… semplicemente saltando un posto di blocco.
Poiché è dai margini che il centro diventa più evidente, nell’osservazione di vicende secondarie e marginali questi meccanismi risultano ancor più espliciti e facili da studiare e questo vale anche nella costruzione di capri espiatori. Notevole a questo proposito l’epopea di Igor il russo o l’assurda vicenda dell’Audi Gialla; episodi in cui, soprattutto a distanza di tempo, risultano particolarmente evidenti le forzature con cui i protagonisti di queste narrazioni son stati eletti a puri e semplici feticci su cui convogliare pulsioni, paure, paranoie, fantasie e pregiudizi inespressi.
In tutti questi casi il capro-feticcio diviene una figura a sé, separata ma sovrapposta al suo rappresentante reale: nel caso del post 11 settembre un americano di terza generazione di origine libanese e di religione cristiana poteva esser narrato come uno pseudo-jihadista saudita che simpatizza per i tagliateste e che segretamente anela a circondarsi di spose bambine e distruggere l’occidente; nel caso dei migranti l’ingegnere nigeriano di fede pentecostale figlio di famiglia borghese che fugge dall’impoverimento diviene un allevatore di capre troglodita ignorante che pratica il voodoo in una capanna di sterco e fango che viene qui a rubarci le donne e il lavoro pur essendo troppo scansafatiche per lavorare e inoltre… scandalo dello scandalo… è addirittura colpevolmente possessore di uno smartphone!
Il criminale serbo Norbert Fehler diviene Igor il russo, una sorta di supercattivo dei fumetti a metà tra James Bond e Rambo, imprendibile e capace di tenere in scacco oltre duemila carabinieri, avvistato ovunque ma introvabile come Bigfoot, cattivissimo ed abilissimo, geniale e scaltrissimo; un’automobile gialla che salta un posto di blocco diviene l’imprendibile Audi Gialla guidata da criminali dell’est e che scorrazza a tutta velocità per il Veneto per dimostrare con un gesto di spregio che le genti slave possono fare ciò che vogliono “a casa nostra”.
Tale meccanismo è particolarmente presente nella cultura di coloro cui son affidati compiti di controllo sulla popolazione in quanto definire un nemico tangibile permette di agire attivamente ed in forme materiali, visive e quindi spettacolari (l’inseguimento del corridore solitario sulla spiaggia o l’esibizione dei droni a scansione termica sono intrinsecamente degli atti teatrali). Anche qui non si tratta di un meccanismo necessariamente voluto: se in alcuni casi capro espiatorio e spettacolarità sono ricercati a tavolino, nella maggioranza dei casi sono un effetto complementare di un modo di vedere le cose altamente interiorizzato. A questo proposito basta citare alcuni commenti provenienti da gruppi Facebook di forze dell’ordine in cui per osservare l’insensata acredine immediatamente maturata dopo l’imposizione del lockdown per quelli che vanno in giro con il cane, visti come dei “furbetti” che usavano i propri animali da compagnia come passepartout per aggirare la legge e l’immediata nascita di leggende metropolitane su cani diventati magrissimi perché obbligati a camminare per ore.
#ConfinatiInCasa a causa di un sistema emergenziale inadatto
La diffusione del SARS-CoV-2 è un problema innanzitutto sanitario e dunque la prima cosa da tenere a mente per qualsiasi ragionamento sono proprio le indicazioni sanitarie su come effettuare il suo contenimento. Indicazioni che possono essere riassunte in:
- Riduzione dei contatti fisici (distanziamento fisico / limitazione degli spostamenti / isolamento / uso di dispositivi di protezione)
- Sanificazione (disinfezione ambienti / potenziamento delle prassi igieniche)
- Monitoraggio (tamponi / verifica della catena di trasmissione)
Le modalità di applicazione di queste indicazioni possono variare molto e non sono esenti da discussioni tra medici e preoccupazioni di varia natura: il distanziamento fisico comporta la cessazione di numerose attività economiche indispensabili e non; l’isolamento applicato in forma preventiva è causa di numerosissimi problemi; i dispositivi di protezione sono utili solo se usati correttamente, altrimenti possono contribuire a diffondere il virus; la disinfezione degli ambienti richiede una certa preparazione; mancano materiali; la verifica della catena di trasmissione se fatta con mezzi informatici può avere dei risvolti catastrofici sulla privacy ecc.
Il tutto é ulteriormente complicato dal fatto che le problematiche pregresse (sistema sanitario indebolito da decenni di tagli e privatizzazioni, mancanza di personale medico, mancanza di un piano di contenimento già preventivato, dotazioni non sufficienti ecc.) han portato a compensare tali mancanze con un intervento meramente poliziesco tradottosi infine nel lockdown generale, nel #restiamoacasa, e nel teatrino dei decreti e delle autocertificazioni emesse in serie.
La riduzione dei contatti fisici attraverso limitazioni di mobilità ed assembramento è il metodo più drastico per contenere la diffusione del contagio (anche se diversi studi suggeriscono che i lockdown hanno efficacia diversa a seconda dei luoghi e delle modalità con cui viene effettuato e che, addirittura, in determinati casi si rivela controproducente) e può essere attuata in diversi modi, ossia limitando la mobilità tra aree diverse (a livello di nazione, regione, provincia, area, comune, quartiere) ed impedendo qualsiasi attività che preveda la compresenza ravvicinata di più persone. Ciò può essere effettuato in modo selettivo con la creazione di cordoni sanitari mirati (come isolare molto duramente una certa area ma applicare limitazioni meno stringenti in un’altra oppure presidiare i luoghi ad alto rischio concentrando gli sforzi sui potenziali focolai ed imporre solo norme di distanziamento nei luoghi a basso rischio). In generale il mondo medico suggerisce l’interruzione degli spostamenti a grande distanza, degli assembramenti di massa, mantenere un costante distanziamento fisico e buone prassi di disinfezione, ma non parla mai di confinamento totale e preventivo nelle abitazioni.
E’solo nel peggiore dei casi che questo viene applicato in maniera generalizzata, ossia il lockdown totale in cui viene bloccata ogni attività ed impedito ogni spostamento sul territorio.
Ricorrere al lockdown generale è una soluzione estrema sintomatica di una situazione oggettivamente fuori controllo oppure, più semplicemente, di una situazione non si è stati capaci di gestire. In altre parole è il risultato del fallimento delle misure preventive e di contenimento iniziale. Una grossa presa di coscienza della propria impreparazione, insomma.
Ma la gestione dell’emergenza come s’è detto varia notevolmente da paese in paese e le differenze di approccio derivano da fattori politici, sistemici, economici e territoriali di cui bisogna tenere ben conto quando si effettuano paragoni. Quando si parla del lockdown in Nuova Zelanda, per esempio, si parla di due isole grandi come l’Italia ma una popolazione di soli 5 milioni di abitanti. Nel caso di Cuba si parla di un’isola grande un terzo dell’Italia ma con un sesto dei suoi abitanti e che vanta non solo il miglior sistema sanitario dell’America latina ma pure il maggior numero di medici pro capite nel mondo. Hong Kong e Singapore sono sostanzialmente delle città-stato ad altissima densità abitativa. Insomma: è una banalità far notare che gestire la pandemia a Hong Kong è diverso che gestirla nelle campagne del Marlborough neozelandese ma a quanto pare questa banalità sembra sfuggire a gran parte dei media nostrani, che insistono soprattutto sulla questione dei test fatti a tapeto sull’intera popolazione in Corea del sud e sul tracciamento digitale delle persone, promuovendolo come inevitabile.
Se da un lato i nostri media insistono su test e tracciamento, dall’altro si son però rivelati assai imprecisi nel descrivere l’applicazione del lockdown negli altri paesi, per la gran parte molto meno restrittivi dell’Italia.
L’ostracismo dei comparti economici bergamaschi che hanno impedito il lockdown della Val Seriana e l’impreparazione generalizzata del governo italiano e delle amministrazioni locali che ha contribuito a posticipare oltre il dovuto l’applicazione di procedure emergenziali mirate, sono indubbiamente i principali responsabili del tracollo che ha portato all’imposizione di un lockdown durissimo che sulla penisola è stato applicato con un tono del tutto peculiare caratterizzato da una forma di militarizzazione che fatta eccezione per alcuni regimi dittatoriali trova forse dei paralleli solamente in Spagna.
Tutto chiuso e tutti al chiuso. L’ordine generale si è tradotto di fatto in un contenimento di massa che ha confinato l’intera popolazione agli arresti domiciliari nella speranza di riuscir a rallentare la diffusione del contagio affinché prosegua entro livelli gestibili dal sistema sanitario nazionale e questo nonostante il parere contrario di diversi medici che non mancano di far notare che la presenza prolungata in ambienti ristretti comporti molti più rischi che starsene all’aria aperta.
L’equazione è semplice: minore è la capacità del servizio sanitario nazionale di rispondere all’emergenza e maggiori sono le restrizioni imposte. Detta brutalmente: non avendo un sistema emergenziale efficace né un sistema sanitario tarato sulle reali esigenze della popolazione, adesso è la popolazione stessa a dover tarare le proprie vite per far in modo che sia il contagio ad adattarsi ai ritmi che questo sistema sanitario prosciugato da decenni di tagli può sostenere.
Italian Lockdown
Osservare l’ordine temporale con cui si è giunti al lockdown in Italia rivela molte cose: tra novembre e dicembre 2019 i medici cinesi iniziano a rilevare morti sospette e interrogarsi; il 31 dicembre viene avvertita l’OMS e la TV pubblica cinese avverte la popolazione della presenza di un virus ancora sconosciuto. Nei primi giorni di gennaio diversi paesi iniziano ad effettuare verifiche negli aeroporti sulle persone provenienti da Wuhan. A metà gennaio il virus viene identificato ed al contempo giunge la conferma della sua presenza anche al di fuori dalla Cina: a Taiwan, in Corea del sud e negli USA. Il 23 gennaio viene attuato il lockdown di Wuhan mentre i casi in Cina aumentano vertiginosamente. Nel giro di pochi giorni arrivano conferme della presenza del virus da sempre più paesi sparsi sul globo ed il 31 gennaio 2020 l’OMS dichiara che v’è il pericolo che si sviluppi una pandemia globale.
Nello stesso giorno vengono sospesi i voli dalla Cina all’Italia. A Roma due turisti cinesi risultano positivi al virus. In questo momento i grandi media italiani trattano la notizia perlopiù come un qualcosa di marginale che riguarda solo la Cina ed i suoi abitanti ed a livello politico/gestionale non vengono intraprese particolari procedure di contenimento al di là della verifica delle persone provenienti dalla Cina. Questo fino al 21 febbraio quando irrompe la notizia dei primi morti italiani per coronavirus a Codogno (Lombardia) e, a breve giro, a Vò Euganeo (Veneto). I media italiani a questo punto lanciano allarmi di panico. Nel giro di pochi giorni alcuni dei comuni coinvolti vengono dichiarati zona rossa (ma non tutti) e le regioni colpite iniziano ad emettere ordinanze atte a limitare assembramenti per attività ritenute non indispensabili (scuole, centri sportivi, sagre, manifestazioni), permettendo tuttavia gli assembramenti per attività lavorative, nei centri commerciali, mezzi di trasporto pubblico ecc. Le contraddizioni insite in queste ordinanze le rendono, di fatto, inutili.

Campagna a favore della diffusione del contagio del 26 febbraio 2020
Verso fine febbraio i comparti economici, spaventati dall’allarme mediatico e dal contraccolpo economico che stava causando, attraverso i propri responsabili media lanciano campagne tranquillizzatrici come #MilanoNonSiFerma e #BergamoIsRunning che, coinvolgendo diversi media, influencer, social e personaggi politici a loro affini, tentano di negare e minimizzare la realtà dei fatti attraverso una campagna stampa prontamente e acriticamente rilanciata sui social commerciali da una schiera di utili idioti. Al contempo pure alcuni quotidiani pubblicano articoli atti a minimizzare l’emergenza.

In questa immagine i titoli di sinistra vanno dal 22 al 25 febbraio mentre quello di destra è del 27
Il numero dei contagi tuttavia aumenta e con due decreti in rapidissima successione, tra l’8 ed il 9 marzo il governo italiano dichiara l’intero paese zona rossa impedendo alla popolazione di uscire dalla propria regione di residenza ma permettendo ancora l’apertura dei negozi ed il lavoro nelle fabbriche. A seguito dell’annuncio diverse migliaia di persone si è allontanano dalla città, perlopiù per tornare nelle proprie regioni di origine (o verso seconde case, con enorme fastidio della gente del posto). Le stime più alte parlano di trenta o quarantamila persone. Queste partenze improvvise vengono narrate dai media con discreto allarme generando diverse polemiche.

Consigli utili soprattutto a diffondere il contagio
L’11 marzo il governo impone una nuova stretta con la chiusura di tutti i negozi tranne supermarket, banche, farmacie, edicole e poche altre tipologie ed il divieto per la popolazione di lasciare il proprio comune. Le forze di polizia applicano le disposizioni dandogli una lettura particolarmente restrittiva impedendo, di fatto, ogni tipo di attività all’aperto anche se solitaria e svolta in sicurezza. L’autoisolamento in casa, già attuato preventivamente da milioni di persone s’inaspriva rendendo di fatto illegale uscire dalla propria abitazione.

Non controlli sanitari ma solo di polizia
Tra polemiche, gogne social verso chi “non si attiene alla legge” e concessioni minimali, si assesta una applicazione del lockdown in cui il diritto ad una circolazione limitata è concesso non in base a criteri di sicurezza sanitaria ma in base al principio della “giusta motivazione”: andare a far la spesa al supermercato più vicino o a lavorare in fabbrica è concesso, passeggiare no. Nel frattempo vengono preparati alcuni ospedali provvisori. Le fabbriche tuttavia restano attive, pur costituendo i maggiori focolai.
Solo il 21 marzo vengono chiuse anche le fabbriche, fatta eccezione per quelle ritenute “essenziali” (tra cui l’industria bellica). Nel corso delle settimane successive diverse aziende riescono comunque ad ottenere il permesso di tornare a produrre e Confindustria preme affinché venga concessa una riapertura di quasi tutte le attività. Già nella seconda settimana di aprile, nonostante non vi sia alcun segno di un calo dei contagi, numerose fabbriche iniziano a riaprire, il governatore del Veneto Zaia dichiara che di fatto il 60% delle aziende della regione sono attive ed in tutt’Italia le aziende riaprono autocertificandosi come essenziali, spesso con motivazioni del tutto inconsistenti. Due terzi degli italiani, in un modo o nell’altro, continua a lavorare.
Questa è a grandissime linee la cronologia dell’imposizione del lockdown nel Belpaese fino a questo momento, da cui risulta particolarmente evidente il ruolo di primo piano che ha giocato il comparto economico nel remare contro l’applicazione delle misure sanitarie di contenimento, l’indecisione della politica e la schizofrenia con cui i media han trattato il tutto.
Chinese Lockdown
A termine di paragone è interessante osservare le tempistiche del lockdown a Wuhan, in quanto, pur tenendo in considerazione le differenze sociali/ambientali/politiche/economiche, il lockdown di Wuhan si differenzia da tutti gli altri per via della sua eccezionalità (trattandosi dell’epicentro del contagio) ed il modo in cui è stato applicato evidenzia differenze d’approccio molto forti rispetto ai lockdown occidentali, tra cui quello italiano.
Il 23 gennaio viene annunciato il divieto di uscire dalla città di Wuhan e che il trasporto pubblico sarebbe stato interrotto entro poche ore, causando un esodo di massa nelle ore antecedenti alla sua interruzione (si calcola che solamente via treno furono circa 300.000 le persone che abbandonarono Wuhan). Vengono chiuse anche le autostrade. Il giorno dopo le stesse imposizioni sono state applicate in comuni limitrofi. Si iniziano subito ad applicare le misure di contenimento (che vedremo meglio dopo). Il 13 febbraio vengono chiuse tutte le fabbriche non essenziali. Il 20 febbraio vengono chiuse anche le scuole. A partire dal 13 marzo, a scaglioni si inizia a permettere nuovamente lo spostamento all’interno dei comuni ed a riaprire alcune fabbriche. L’8 aprile termina il lockdown di Wuhan ma proseguono le norme di distanziamento fisico e sicurezza.

Checkpoint all’ingresso di un blocco residenziale di Wuhan
Le tempistiche rivelano con chiarezza come l’approccio cinese sia stato fin da subito più deciso e netto mentre quello italiano (e di molti altri paesi occidentali), ma il tutto risulta ancor più interessante osservando le caratteristiche applicative del contenimento di Wuhan, da cui si possono evincere le enormi differenze strutturali e organizzative e rispetto all’Italia Innanzitutto va osservato che le chiusure sono state fatte principalmente per comunità: paesi, villaggi, aree urbane son stati chiusi al contatto esterno imponendo spesso un unico accesso controllato con checkpoint, con livelli di rigidità proporzionali al livello di contagi all’interno della comunità stessa. La spesa nei mercati era permessa a giorni alterni. Per realizzare queste compartimentazioni fra zone molte strade sono state bloccate.

All’interno delle comunità isolate ci si è organizzati per offrire servizi all’interno della comunità in forme sicure.
Circa quarantamila medici da ogni zona del paese sono giunti rapidamente a Wuhan e nelle città limitrofe per dare manforte al personale locale ed evitare il collasso della struttura sanitaria locale. Allo stesso tempo sono stati realizzati in tempi rapidissimi due nuovi ospedali specifici per i pazienti più gravi e dieci ospedali temporanei all’interno di centri fieristici e sportivi per curare i pazienti meno gravi. I medici delle singole comunità hanno fatto materialmente il giro di ogni singola abitazione per verificare la presenza di sospetti malati, le situazioni a rischio, stabilire se imporre la quarantena alle persone che vivevano assieme a chi era stato ricoverato, decidere se ci fossero casi da monitorare ed effettuare tamponi mirati.

Le persone che si sospettava potessero esser state contagiate sono state sistemate in alloggi isolati (ad esempio in camere d’albergo) e tenute sotto osservazione per almeno due settimane
Oltre a questo sono stati istituiti centinaia di ricoveri temporanei per separare le persone a rischio e far trascorrere due settimane o più in quarantena (spesso in isolamento) e osservazione a chi era stato dimesso o fosse stato a contatto con persone contagiate. Il governo ha fornito cibo e servizi base alle persone in quarantena tramite l’esercito.
Ciò che ha caratterizzato il lockdown di Wuhan è stato innanzitutto un livello di compartimentazione estremamente capillare e metodico grazie ad un’organizzazione basata sul principio delle comunità, sull’utilizzo delle reti locali e utilizzando l’esercito in funzione delle esigenze del personale medico: se all’interno di un complesso abitativo vi era un contagiato, l’intero complesso poteva esser messo sotto quarantena impedendo ai suoi inquilini di uscire ma se dopo un certo lasso di tempo (minimo due settimane) veniva rilevato che i soli contagiati erano quelli di un determinato appartamento, le limitazioni ai residenti degli altri appartamenti potevano esser rivedute. All’interno di comunità prive di contagi la restrizione di movimento era applicata solo al di fuori dell’area della comunità stessa (quartiere, villaggio) ma non vi era necessariamente il divieto di uscire al di fuori di essa.
Non va però dimenticato che la gestione ha presentato tratti anche assai feroci, con esercito ed amministrazioni che han agito con estrema durezza per far applicare la quarantena, spesso imponendola, ad esempio minacciando di staccare la corrente a chi non collaborava.
E’dunque necessario un esercizio di separazione: il lockdown effettuato a Wuhan è stato indubbiamente gestito in maniera militarista e totalitaria e in questo può solo esser rifiutato, ma (qui la separazione) va osservato che il tutto è stato fatto ponendo al centro di ogni ragionamento le esigenze mediche.
Niente distribuzioni di pseudo-mascherine nè aperture furbette di fabbriche o mancati lockdown a causa delle pressioni dell’industria locale.
Altro aspetto Interessante è che l’utilizzo di tecnologie di tracciamento pare esser stato decisamente molto meno utile e centrale rispetto a quanto vien riportato dai grandi media occidentali; piuttosto sembra esser stata usata soprattutto per intimidire la popolazione facendole percepire la presenza costante dello sguardo delle forze di controllo sui propri movimenti attraverdo app di tracciamento e micacciosissimi droni con altoparlante.
Stendere il virus con multa e manganello
In Italia il lockdown si è imposto come un divieto generalizzato di effettuare qualsiasi attività “non giustificata” all’aperto e nell’esperienza comune di ogni cittadino il rapporto con il governo non comprende medici che vengono a verificare la situazione casa per casa né membri dell’esercito agli ordini dei medici ma solamente forze dell’ordine che controllano che chi sia in giro abbia una “giusta motivazione”. Questo perchè qui s’è imposto il puro e semplice #RestiamoInCasa generalizzato (anche se, come altri han notato, #RestiamoDistanziati, #MinimoDueMetri o altre formule del genere sarebbero certamente state più oneste, utili e sane) per compensare l’incapacità di concepire una gestione più ragionata dell’emergenza.
La forma con cui sono state applicate le restrizioni in Italia è tra l’altro anche un segno tangibile della sproporzione tra spesa militare e spesa sanitaria del paese: non è un caso se militarizzare le strade sia risultato più semplice che attuare protocolli sanitari d’emergenza sul territorio perché notoriamente l’Italia investe più nell’esercito e nelle forze di polizia (vedi anche qui e qui) che sulla salute della popolazione. L’Italia è pure il paese europeo col maggior numero di effettivi nelle forze di polizia, dato che risulta ancor più impressionante se rapportato al numero di abitanti ed alla superficie del territorio.
Al contrario, se si osserva il rapporto tra PIL e spesa sanitaria si osserva subito che sono diversi i paesi che, in proporzione, investono più dell’Italia nel servizio sanitario, ad esempio, tra questi: Moldavia, Lesotho, Ruanda, Serbia, Kiribati, Palau, Uganda, Costa Rica, Haiti.
Anche riguardo all’istruzione la situazione è simile e si rileva che l’Italia è tra gli ultimi paesi in Europa per spesa nell’istruzione eanche a livello internazionale non siamo messi bene (superati ad esempio da Benin, Malawi, Afghanistan, Mongolia e Sierra Leone). Cuba, per esempio, investe oltre tre volte più dell’Italia nell’Istruzione. Non è un casoi se ci mandano i medici, ecco.
Non stupisce dunque che diversi gli indicatori riportino un drammatico calo delle capacità degli studenti italiani. Non è un caso, dunque, se scarseggiano medici ed infermieri ma le forze dell’ordine non mancano mai.
Giusto per fare un esempio sulle differenze di spesa, non è mancato chi ha fatto notare che i soldi impiegati per acquistare un solo F-35 sarebbero stati meglio investiti nella realizzazione di 1350 posti letto per cura intensiva.

Non importa solo quanto spendi, ma anche il come
Insomma, in un paese con grandi apparati militari e polizieschi ma apparati sanitari e scolastici sottodimensionati era tristemente prevedibile che la gestione di un’emergenza sanitaria in Italia sarebbe stata trattata soprattutto come un generico problema poliziesco.
Va osservato che questo forte sbilanciamento a favore degli apparati di controllo influisce su diversi piani e moltissimo anche a livello culturale: quando le amministrazioni locali hanno iniziato a capire che la questione del virus fosse un problema serio, queste, anche se in maniera spesso pasticciata, vi si sono approcciate pensandolo proprio in ottica poliziesca, partorendo difatti ordinanze e divieti che non avevano alcun senso dal punto di vista sanitario e che han toccato solo e soltanto quelle forme di assembramento tipicamente più soggette all’intervento poliziesco (manifestazioni, scioperi, eventi di piazza, scuole, centri sociali) senza toccare le forme di assembramento che riguardavano i luoghi destinati a produzione, commercio e tradizione (centri commerciali, fabbriche, chiese, case di riposo). Solo successivamente a queste disposizioni poliziesche hanno iniziato a fornire informazioni sanitarie basate più o meno su indicazioni mediche.
Anziché un problema sanitario gestito con l’ausilio della forze di polizia, il lockdown italiano é stato caratterizzato fin da subito come un problema di polizia motivato da questioni sanitarie. Una differenza non da poco.
Il virus circola, la polizia vuole #TuttiAlChiuso
Il risultato si è tradotto nell’affermazione di una serie di attività di controllo (di dubbia costituzionalità) sulla popolazione che non hanno alcuna giustificazione di tipo sanitario e che colpiscono persone intente in attività che in nessun modo potrebbero essere ritenute veicoli di contagio. Attività di controllo subito fatte proprie dal circuito mediatico-politico, felicissimo di potersi affrancare dalle proprie responsabilità e scaricare le colpe su anonimi signor nessuno. Ecco che, fin da subito, media e politica hanno alimentato una caccia all’untore dai tratti paradossali.

9 aprile 2020: sulla spiaggia di Pescara, un finanziare rincorre un temibile “untore” rossovestito in una spiaggia deserta. Nessun pericolo di contagio, è chiaro, ma é vietato… perchè è vietato (VIDEO)
Dall’imposizione del lockdown si son iniziate ad attaccare mediaticamente e sui social persone a passeggio da sole in luoghi isolati e senza la benché minima possibilità di contatto con altre; si sono inaugurate le cacce al runner anche con pestaggio e tramite droni a scansione termica; a coppie che vivono assieme è stato intimato di non tenersi mano nella mano; si son contestate le persone che han fatto spese poco sostanziose perché ciò comporta un ritorno frequente al supermercato (ma s’è pure contestato chi faceva spese troppo grosse perché toglieva il cibo di bocca d’altri); son state lanciate accuse di assembramento a tre-quattro persone che si recavano al lavoro a piedi stando a due metri di distanza l’una dall’altra.

Tamponi no, visite mediche no, controlli dei casi sospetti no, ma… controllo della popolazione coi droni si, quello sì LINK
In questa caccia all’untore il circuito media-politica-social si è dimostrato particolarmente stretto, alimentandosi a vicenda nel mantenere al centro del discorso l’azione di controllo poliziesca: persone allarmate dai media han espresso allarmi sui social che sono stati amplificati dai media ed han indirizzato le decisioni politiche; l’interpretazione eccessivamente restrittiva da parte delle forze di polizia plaudita da utenti reazionari sancendone mediaticamente la validità

Il governatore della Toscana emette ordinanze non in base a dati reali nè in base a pareri medici ma per via di articoli di giornale (che in molti casi han solo preso ed amplificato delle gogne da social) LINK
Il circuito è tanto stretto da render difficile osservarlo separando nettamente i confini tra i suoi componenti: la denuncia di un tizio che ha acquistato delle bottiglie di vino (bene ritenuto non indispensabile e quindi privo di “giusta motivazione”) diviene subito notizia ricevendo risalto dalla gogna social, influendo sull’interpretazione delle restrizioni da parte delle forze di polizia che a quel punto si sentono autorizzate a riprendere i cittadini per cosa hanno acquistato.
Schizofrenia mediatica
Alcune giravolte mediatiche viste in queste settimane sono state non da poco. Non solo il passaggio repentino dal panico allo “stiamo calmi” di fine febbraio: fin dai primi giorni di lockdown son circolate un gran numero di foto che ritraevano città spettrali e deserte ma poi, per un certo numero di giorni, sui media son comparse strane immagini di strade affollatissime di gente tutta ammassata. Su queste immagini torneremo più avanti ma qui, ciò che importa, è osservare la contradditorietà delle informazioni passate dai media mainstream.

10 marzo 2020. Repubblica pubblica video di una Roma deserta e spettrale LINK
Altro esempio: all’inizio i media han insistito sulle foto di scaffali dei supermercati vuoti ma poi queste immagini son cessate di colpo, probabilmente per non generare situazioni di panico oppure perché era molto facile osservare che queste immagini erano state realizzate tutte all’orario di chiusura e solo in alcuni supermercati di grandi centri urbani in cui erano effettivamente state fatte delle spese molto consistenti, ma non si erano certo verificati assalti al supermercato nè risse (tranne in un unico caso, prontamente mediatizzato). Nell’esperienza comune chiunque ha sempre potuto osservare che i supermercati han continuato ad essere sempre riforniti (fatta forse eccezione per farina e lievito, cosa che ha generato una certa ilarità su un paese che si dedica alla panificazione).

21 marzo 2020: Repubblica pubblica un video di una Napoli spettrale e deserta molto simile alla Roma mostrata pochi giorni prima, solo che qui la telecamera si concentra sulle poche persone in strada per “dimostrare” che c’è troppa gente in giro LINK
Nei primi tempi, insomma, i grandi media ancora impreparati sul come trattare questa situazione, hanno fornito molte immagini e informazioni contraddittorie. Nell’arco di qualche settimana la narrazione è andata delineandosi, pur non rinunciando mai ad altalenare tra allarme e rassicurazione e riproponendo a volte alcune formule prima scartate: a inizio marzo gli appelli di Confindustria a far finta di niente son stati smorzati a favore delle direttive governative che hanno confermato ed inasprito le restrizioni poliziesche del lockdown su scala nazionale, per poi ripresentarsi pian piano in forme meno evidenti, puntando sul “buonsenso” e sul bisogno di “salvare l’economia”, insistendo sulla riapertura delle fabbriche.
Sicurezza sanitaria o giusta motivazione?
Dunque, ricapitolando: nelle prime ordinanze emesse dai governi locali i principi alla base delle restrizioni non erano di tipo sanitario ma erano grossolanamente tesi ad evitare gli assembramenti ritenuti non indispensabili. Sono state chiuse scuole ed istituti sportivi, vietate sagre, manifestazioni e scioperi. Al tempo stesso però sono state mantenuti aperte fabbriche e centri commerciali, non si è provveduto a trovare una soluzione al pericoloso sovraffollamento delle carceri (dando vita a proteste mai viste prima in questa proporzione) nè di altre situazioni a rischio come i campi rom ed in alcuni casi addirittura si è provveduto a ridurre il numero di corse dei mezzi pubblici impedendo alle persone obbligate ad andare al lavoro per la mancata chiusura delle fabbriche di poter mantenere le distanze di sicurezza.

Contenimento pandemia alla cinese: verifiche sanitarie
Lo stesso concetto di zonizzazione è stato inteso ed imposto fin da subito come una rigida chiusura generale effettuata senza tener conto delle singole realtà né della letteratura scientifica che evidenzia come una mobilità controllata da regioni con forte diffusione del contagio, se gestita da personale sanitario con quarantene mirate, osservazione da parte di personale medico e ponendo livelli di isolamento differenziati (come nel modello del lockdown di Wuhan), controintuitivamente permette di ridurre il carico sui sistemi sanitari della regione in difficoltà. Una forma di monitoraggio e contenimento, insomma, avrebbe contribuito ad alleggerire il sovraccarico sull’inefficiente sistema sanitario lombardo ora al collasso.

Contenimento pandemia all’italiana: controllo autocertificazioni
Una volta passati dalle regioni “zona rossa” al lockdown nazionale non si è fatto altro che inasprire i principi di natura poliziesca delle ordinanze regionali riassumendole nel principio della “giusta motivazione” limitando la mobilità all’interno del proprio comune*. E’la motivazione, dunque, ad aver valenza prioritaria nell’Italian Lockdown. La sicurezza sanitaria vien dopo.
[* Più o meno: poichè nei fatti chi si rifornisce in supermercato/negozio/edicola che non sia quello più vicino alla propria residenza viene contestato]
Avendola impostata solo in questi termini (giustificato/non giustificato ossia legale/illegale), la questione delle restrizioni viene immediatamente caratterizzata da un frame discorsivo deviante perchè impostato sulla legalità e non su principi scientifici, che porta, appunto, a giustificare la prosecuzione del lavoro in condizioni di totale insicurezza per attività ritenute “indispensabili”, giustificare il divieto di sciopero degli operai preoccupati per la propria salute e al tempo stesso ad additare come untore chi scende un attimo al parco per fumarsi una sigaretta in solitudine.
Porre l’accento sulla legalità non fa che spostare sia il piano discorsivo che quello attuativo dal problema reale ad una sua ridicola rappresentazione burocratico-legalitaria che criminalizza comportamenti che non sono di alcun rischio mentre ne giustifica altri, pericolosissimi.
E’evidente che in quest’emergenza i concetti di “legale” e “illegale” sono particolarmente disgiunti da quelli di giusto o sbagliato.
Agli osservatori più attenti non può sfuggire il fatto che tale tipo di meccanismo è sostanzialmente una versione estremamente amplificata di quello in atto nell’ideologia del decoro secondo il quale non si caccia il senzatetto steso sulla panchina perché stia facendo qualcosa di male ma semplicemente perché “non ci si può stendere sulle panchine”, in base alla presunzione ideologica che il senzatetto che veste male e si stende sulle panchine sia indecoroso e dunque pericoloso (un uomo in giacca e cravatta steso sulla panchina non genererebbe la stessa reazione), motivo per cui viene vietato a tutti di stendersi sulle panchine (anche all’uomo in giacca e cravatta).
Dunque una presunzione di pericolosità (contagiosità) stabilita non in base a criteri sanitari ma per legge. Un tizio che volesse sfuggire la monotonia del confinamento facendosi semplicemente un giro in bici con guanti e mascherina nelle campagne del proprio comune senza mai scendere dal proprio mezzo nè avvicinarsi a nessuno non corre alcun rischio di contagiarsi né di contagiare nessuno, ma se gira senza “giusta motivazione” per legge si presume preventivamente possa forse diventare un potenziale rischio.
La chiusura degli ambienti chiusi ad alta capienza, l’obbligo di mantenere le distanze, quello di indossare i dispositivi di protezione in determinate situazioni (spesa al supermercato), così come un certo grado di limitazione degli spostamenti nelle aree ad alto rischio, sono restrizioni giustificabili con la necessità di limitare la trasmissione del contagio entro livelli gestibili, ma è ben più difficile trovare giustificazione per restrizioni che contraddicono le stesse linee guida di sicurezza: che senso ha denunciare una persona che se ne cammina da sola, senza entrare in contatto con nessuno, quando le indicazioni dell’OMS dicono chiaramente che mantenendo la distanza minima di un metro con le altre persone le possibilità di contagio sono praticamente nulle? Altresì non ha alcuna motivazione medica l’imporre di mantenere tale distanza in pubblico a due persone che coabitano.
Estremizzando, se si uscisse di casa indossando una tuta hazmat disinfettata seguendo tutte le prassi anticontagio applicate nei laboratori di virologia per andare a fare due passi in un parco completamente deserto si rischierebbe una denuncia mentre, al contrario, se si uscisse senza alcuna accortezza per andare a lavorare al chiuso a strettissimo contatto con altre venti persone non ci sarebbe alcun problema perché è la motivazione che conta, non il rispetto delle misure di sicurezza.

Passeggiare è comunque vietato. Anche se in totale sicurezza.
Se prevenzione ci dev’essere, quella in atto in questa forma è prevenzione di cosa?
Non sfugge un altro parallelismo: quello con le paranoie antiterroristiche. Parallelismo che torna spesso nei commenti social e nell’atteggiamento di forze di polizia e certi amministratori che additano a “terroristi” i presunti untori. A quasi vent’anni dagli attentati dell’11 settembre le norme antiterrorismo e le operazioni come “strade sicure” più che produrre vere azioni antiterrorismo hanno soprattutto aumentato il livello d’insicurezza percepita, comportato diverse morti per suicidio tra i membri dell’esercito ed espulso numerose persone dall’Italia in via preventiva e con motivazioni non sempre solide.
Tuttavia sono pratiche ancora attive, normalizzate nel nostro quotidiano che ha assimilato il concetto di lotta al terrorismo permanente. Allo stesso modo, quante delle pratiche messe in moto nel lockdown rimarranno anche dopo la sua conclusione contraddistinguendo i prossimi vent’anni da come quelli della “prevenzione permanente”?
Poichè, come visto, le prassi in atto sono solo secondariamente basate sulla prevenzione del contagio, vien naturale chiedersi cosa si vorrà davvero prevenire nei prossimi anni. Soprattutto vien da chiedersi che scenari potrebbe elaborare una mente reazionaria dopo aver visto quanto è stato facile confinare l’intera popolazione mondiale nelle proprie celle.
Italiani incontrollabili?
Uno dei mantra con cui viene giustificata la durezza delle restrizioni dell’Italian Lockdown è “se lo facessero tutti…” Mantra solitamente riportato così, senza aggiungere altro dopo i puntini di sospensione, suggerendo la presenza di un nesso logico tra una causa nota e… non si sa bene cosa, lasciando che tale vuoto venga riempito dalla fantasia di chi ascolta.
“Non posso neanche passeggiare in sicurezza tenendomi a distanza da tutti rispettando appieno le prassi anticontagio?”
“Certo che no! Se lo facessero tutti…”
“In effetti: che potrebbe succedere se le persone che rispettano distanze di sicurezza e prassi anticontagio andassero tutte a passeggio?”
-silenzio-
Il punto è che questo quesito non va fatto. Non va nemmeno preso in considerazione. Vien dato per scontato a prescindere che non sia possibile applicarlo: l’idea stessa che la maggior parte delle persone possa rispettare delle prassi sociali sanitarie come tenersi ad un paio di metri di distanza, lavarsi le mani con frequenza ed imparare ad usare i dispositivi di sicurezza nel modo corretto viene rifiutato a prescindere.

Ordinatissime fila… di “indisciplinati”?
Presa di posizione che appare alquanto ridicola considerando che per esperienza comune in questi giorni nei supermercati e per strada si sta tutti distanziati, da ogni parte c’è gente che ti richiama e ti filma se anche solo sospetta tu sia in giro senza “giusta motivazione” o troppo vicino alla tua compagna, insomma: la realtà è che siamo tutti sufficientemente allarmati e che la stragrande maggioranza delle persone si attiene alle prassi di distanziamento fisico.
Anche osservando le realtà straniere appare evidente che gli italiani non risultano essere meno più o meno diligenti rispetto al resto del mondo. Piuttosto quel che si evince è che riguardo al virus “tutto il mondo è paese” ancor più del solito: in ogni parte del globo la gente si attiene spontaneamente a prassi anticontagio ed ovunque c’è solamente una frazione meno che infinitesimale di persone che non lo fanno; frazione che per via dei media sembra molti più sostanziosa di quanto sia in realtà.
Va però ricordato che molti atteggiamenti che in Italia non sono tollerati nella maggior parte dei paesi invece lo sono (come allenarsi, andare in giro in due, ecc.) col risultato che da noi potrebbero risultare più “furbetti” proprio a causa della presenza di norme più restrittive. E’un primo caso di profezia autoavverante: siccome si teme vi siano tanti “furbetti” si creano norme restrittive esagerate che per forza di cose tante persone non potranno rispettare e quindi le tante multe/denunce emesse “dimostreranno” che effettivamente c’è tanta gente incivile.
L’idea alla base dei principi polizieschi che caratterizzano l’applicazione del lockdown in Italia, é difatti proprio l’idea che la popolazione italiana sia composta perlopiù da scellerati menefreghisti inaffidabili da cui non ci si può aspettare alcuna collaborazione*.
[*ironico osservare che si tratta di un non-detto presente soprattutto in chi si riempie la bocca di motti patriottardi ed elogi allo spirito italico, che al tempo stesso sono gli stessi che invocano con più enfasi la diffusione delle armi in stile americano, pene corporali per i detenuti e l’instaurazione di regimi di polizia, a dimostrazione di quanto essi stessi siano coloro che meno si fidano di quei compatrioti che decantano]

Vittimista puccioso
Ciò non suona affatto nuovo, essendo una autorappresentazione radicatissima della mentalità nazionale e basata sui principi del vittimismo e del familismo amorale che, immancabilmente, portano a percepire l’altro essenzialmente come un potenziale approfittatore, un “furbo” incapace di curarsi del bene comune.

Il melodrammatico vittimismo del Canto degli italiani (“Noi siamo da secoli calpesti, derisi”) è un esempio abbastanza eclatante di quanto tale atteggiamento mentale sia tra i caratteri fondanti della mentalità del Belpaese
Rappresentazione dell’altro che ha come diretta conseguenza quella di giustificare la propria furbizia approfittatrice a favore dei propri interessi, intendendola come mezzo necessario di autodifesa dagli altri che si comporterebbero così -per primi-.
“Non sono un ladro ma devo rubare perché son tutti gli altri ad esser ladri”
Questa autorappresentazione giustificazionista è pure connessa al falso mito degli “italiani brava gente”, nato per celare nefandezze che in nessun modo potrebbero rientrare nell’idea vittimista degli italiani che possono fare del male solo per autodifesa.
Autorappresentazione dunque talmente radicata nella mentalità nazionale da esser presente ovunque e venir quindi cooptata anche dal circuito media-politica-social che le incoraggia ed alimenta, facendone però un uso mirato. Se in alcuni casi l’applicazione di questa mentalità viene giustificata, in altri, invece, viene condannata.
In queste settimane questa autorappresentazione è tornata nuovamente utile per distogliere le attenzioni dalle responsabilità politiche di chi ha gestito in maniera tanto pessima il contenimento del contagio.

Il topos dei “soliti furbetti” risulta particolarmente utile per non muovere accuse verso chi ha davvero grosse responsabilitò
Confindustria ed il mondo politico responsabile della malagestione dell’emergenza, dopo un primo momento di confusione, dall’imposizione del lockdown hanno iniziato ad indirizzare i propri canali mediatici sul tasto degli anonimi untori, spostando la colpevolizzazione su persone da etichettare come “furbetti”.
Gli untori solitari
Complice il teatrino delle ordinanze succedutesi in ordine rapidissimo e le indicazioni spesso assai vaghe che han lasciato libertà di interpretazione alle forze di polizia le quali spesso le han applicate in modo assai restrittivo, nel corso delle ultime settimane abbiam visto succedersi su media e social una vera e propria giostra di personaggi topici su cui scagliare l’accusa di esser untori: i runner, quelli che portano in giro i cani, quelli che non vanno a fare la spesa al supermercato più vicino, quelli che fanno spese da pochi euro solo per uscire, quelli senza mascherina, quelli che passeggiano per ore, quelli con la casa in montagna. Inutile far notare che nessuna delle figure qui elencate sia intrinsecamente un vettore di contagio ed altrettanto inutile far notare che i focolai sono principalmente fabbriche, ospedali, prigioni e case di riposo.

L’acquisto di tre bottiglie di vino porta a una denuncia. L’acquisto di farina per fare sculture di pasta invece? LINK
Il circo di bizzarri untori è stato rapidamente preso di mira dalla gogna social la quale al contempo non ha potuto fare a meno di cogliere l’ironica assurdità insita in questa rappresentazione secondo cui il Mario Rossi che attraversava mezza città per andare al lavoro era a posto mentre quello che si faceva una passeggiata per i fatti suoi era un untore, generando una caterva di battute e meme.

Alla periferia di una Faenza spettrale, giocare a tennis anche se tra coinquilini non è ammesso LINK
Gli untori di massa
La demonizzazione degli untori solitari è stata però utile a rafforzare l’accusa più generica e allargata che ci fosse “ancora troppa gente in giro”. Dall’applicazione del lockdown TG e giornali per un certo periodo hanno dipinto il paese come percorso da una sorta di festa in strada permanente con migliaia di persone accalcate che se ne fregavano delle disposizioni.

La popolazione si è adattata subito al rispetto delle distanze di sicurezza
C’era solo un piccolo problema: a tutti gli effetti, in giro, non si vedeva quasi nessuno. I giornali hanno pubblicizzato con grande enfasi le cifre ufficiali di controlli effettuati e denunce emesse descrivendoli come numeri abnormi, solo che, a ben vedere, quegli stessi numeri rivelavano una situazione molto diversa. A fine marzo difatti veniva sbandierata la strabiliante cifra di “novantaseimila denunciati” che, a ben vedere, rappresenta lo 0,15% della popolazione. Sostanzialmente si tratta di una percentuale fisiologica all’interno della quale solo una sotto-frazione ancor minore teneva comportamenti effettivamente a rischio contagio. Ben poca cosa, considerando che l’Italia conta sessanta milioni e mezzo di abitanti.

L’esperienza di chiunque è quella di città spettrali
Il fatto che media e social al tempo stesso mostrassero città vuote, file ordinate e queste notizie su masse di disobbedienti non ha fatto altro che alimentare ulteriormente il tasso di schizofrenia informativa e portare, immancabilmente, a far radicare nell’opinione pubblica l’ipotesi peggiore. Strade deserte ma al tempo stesso assembrate, gente ordinata e rispettosa ma al contempo “furbetta”: nel dubbio meglio pensar male.
Al netto di grandi media e social commerciali, la realtà osservata tra esperienza personale, testimonianze dirette di conoscenti sparsi sull’intero territorio e analisi dei dati su controlli e denunce emesse dipinge in realtà una popolazione preoccupata che si attiene stoicamente ai mantra sullo #StareACasa e sull’ #IndossareLaMascherina minimizzando ogni attività all’aperto e mettendo alla gogna chi, anche solo apparentemente, non fa altrettanto.

La caccia all’untore è stata imposta come elemento principale su cui far riversare rabbia e risentimento
Ma quindi, se sia le esperienze dirette che i dati ufficiali delle forze di polizia fotografano una situazione in cui praticamente non v’è nessuno in giro, da dove saltano fuori questi fantomatici assembramenti di untori, questa “troppa gente in giro” denunciata dai grandi media e dai social network?
Per capirlo è necessario ricordare che comunque una minima quantità di persone in giro c’è sempre: chi va a fare la spesa, a comprar le sigarette, giornali o quant’altro, chi va a lavorare e chi va portare a spasso il cane. Sono queste le persone accusate di fare assembramenti: persone che nella gran maggioranza dei casi sono in giro per “giusta motivazione”. In sostanza siamo noi stessi.

Quando la legge si fa dura, rabbia e frustrazione fanno il delatore
Le pochissime testimonianze dirette su “troppa gente in giro” provengono perlopiù da accuse via social di utenti che evidentemente prendono per oro colato gli allarmi lanciati sui canali mainstream ove la realtà è dipinta come si è visto. Questi utenti dunque vedono “assembramenti” in banali gruppetti di 3-4 persone che camminano distanziate tra loro, in famiglie che mangiano sul balcone, o migranti che vivono assieme seduti sull’uscio di casa. Tutte persone che questi utenti riprendono dalla finestra di casa postandone le foto sui social con commenti indignati. Il tutto senza nessuna attenzione alla privacy e generando anche situazioni drammatiche e che ha portato forze di polizia e quotidiani a chiedere di smetterla di inviare segnalazioni inutili e dannose.
Le pratiche della delazione, dello sfogo indignato sui social e dell’attacco verso il vicinato, esattamente come il lockdown su base della “giusta motivazione”, solo apparentemente sono basate sul problema del contagio: attaccare il corridore solitario in realtà ha più a che fare con un meccanismo del tipo “se io non lo faccio non devi farlo nemmeno tu” giustificato su base legale.

Una delle tante foto postate sui social da “sceriffi da balcone” accompagnate da commenti velenosissimi su questo “assembramento” che in realtà mostra delle persone che camminano mantenendosi a regolare distanza fra loro
Sembra, insomma, di essere di fronte a quelle fotografie sfocate ritraenti macchie e riflessi in cui i rispettivi autori vedono invece la prova dell’esistenza degli UFO. In questo caso la sfocatura non è nell’immagine ma solo nella testa di chi, anzichè osservare per davvero. vi vede solo quel che vuol vedere.

Altra foto postata da “sceriffi da balcone” e postata sui social. L’assembramento, anche qui, è solo nella testa di chi ha scattato la foto

Ennesimo “assembramento” denunciato sui social che in realtà mostra persone che camminano distanziate
Ma tra le numerose foto ne sono però apparse anche alcune in cui non vediamo poche persone che se ne stanno ben distanziate o in fila, bensì orde di gente ammassata in strette stradine. Si tratta di strane foto iniziate ad apparire tra fine marzo ed inizio aprile. Foto strane, perchè non mostrano assembramenti ma dei #Teleassembramenti.
I Teleassembramenti
Una grandissima parte delle persone non ha alcuna dimestichezza con le basi della fotografia, il che sotto certi aspetti è un po buffo, data l’estrema importanza e diffusione nella cultura e nelle società moderne di questa tecnologia con cui si ha a che fare da oltre un secolo e mezzo. Nel corso della nostra vita difatti vediamo milioni e milioni di immagini fotografiche e migliaia di ore tra film, Tv e riprese video eppure ignoriamo completamente le caratteristiche base dell’immagine fotografica (NB: non si parla necessariamente di tecnica ma banalmente della lettura dell’immagine fotografica). E’un po come se fossimo navigatori che non ne capiscono niente di barche, insomma.
Per imparare a leggere le immagini di teleassembramenti, quindi, è necessario riassumere brevemente un paio di principi base di fotografia, cominciando dalle caratteristiche delle immagini riprese con teleobiettivo.

Teleobiettivo
Gli obiettivi fotografici sono apparecchi che “vedono” in maniera diversa rispetto all’occhio umano e quindi ognuno di essi “altera” ciò che riprende in un proprio modo specifico.
Il teleobiettivo (o “obiettivo a focale lunga”) è un tipo di obiettivo usato per riprendere soggetti molto distanti. Più questi sono distanti e più il teleobiettivo li ingrandisce e ciò modifica fortemente la percezione delle distanze tra gli oggetti che stanno davanti da quelli che stanno dietro, appiattendole (iu termini tecnici si parla di “profondità di campo”). Lo stesso effetto può essere ottenuto anche con l’uso di zoom ottici.

Alcuni esempi di un soggetto ripreso con obiettivi differenti. Maggiore è la focale usata (espressa in mm) e più lo sfondo risulta vicino e piatto

Si noti come nella foto con la focale maggiore (200mm) gli oggetti sullo sfondo appaiano molto più grandi e vicini rispetto alle foto con focali inferiori

Le ipotesi sono due: o si tratta di immagini scattate con teleobiettivo o la luna in realtà è tanto vicina da poterla toccare
L’effetto finale è abbastanza noto agli appassionati di sport: è osservabile ad esempio nelle moviole di calcio quando si osserva che in alcune riprese con teleobiettivo due calciatori sembrano praticamente toccarsi mentre la stessa scena ripresa con un diverso obiettivo o da una differente angolazione rivela che invece stavano a diversi metri di distanza.

In un’immagine bidimensionale, osservare le linee prospettiche è indispensabile per comprendere la profondità di campo e tentar di capire le distanze reali
L’uso dell’angolazione difatti è il secondo principio da tenere a mente e di questo possiamo fare esperienza anche ad occhio nudo: se si mettono in fila degli oggetti ad una certa distanza l’uno dall’altro e si osservano di lato o dall’alto li si vedrebbe uno accanto all’altro capendo perfettamente la distanza a cui si trovano, ma se invece li si osservasse da una posizione più frontale, questi apparirebbero uno dietro l’altro e si avrebbe una certa difficoltà a capire le distanze.
Per meglio comprendere la cosa è possibile osservarne gli effetti in questa serie di foto realizzate da Naivespeaker:

FOTO 1: una fila di pupazzi posti a distanza regolare. Fotografati di lato e dall’alto le distanze appaiono chiare

FOTO 2: Sempre dall’alto ma da una diversa angolazione si può osservare che i pupazzi più lontani appaiono decisamente più ravvicinati tra loro rispetto a quelli più vicini Eppure sappiamo che le distanze sono uguali

FOTO 3: Un dettaglio zoommato della foto precedente. Mostra solo i pupazzi più lontani. Sembrano quasi toccarsi

FOTO 4: Con la giusta combinazione di angolazione ed obiettivo (o zoom) i pupazzi sembrano schiacciati l’uno sull’altro senza alcuna distanza tra loro. Una fila lunga due metri qui pare compressa in venti centimetri. Eccolo il teleassembramento

Un’immagine di “assembramento” girata sui social. La rassomiglianza con la foto precedente è particolarmente evidente)
Ricapitolando: riprese con focale lunga e tipo di angolatura dei soggetti ripresi contribuiscono ad alterare la percezione delle distanze, appiattendole.
Ebbene, gli “assembramenti” mostrati su giornali, social e TG che cos’hanno in comune tra loro? L’essere tutti ripresi con teleobiettivo o zoom ed usare angolazioni frontali. Dei #teleassembramenti appunto: assembramenti creati col teleobiettivo (Qui un video che mostra chiaramente come si “costruisce” un teleassembramento)

Uno dei tanti #teleassembramenti denunciati dai giornali. L’effetto “schiacciamento” è particolarmente evidente e tutte le persone presenti in una via di diverse decine, se non centinaia di metri, appaiono come fossero vicinissime
In pratica quelle che vengono riprese sono delle persone che si trovano in uno stesso luogo, preferibilmente stretto e lungo (come una via dritta o una fila di bancarelle del mercato) e che camminano stando ad uno, due, tre, dieci metri di distanza tra loro ma poiché vengono riprese da lontano con un teleobiettivo e con un’angolatura specifica, sembra che queste stiano a pochi centimetri di distanza gli uni dagli altri, ammassati come sardine.
Lo stesso effetto visto con i pupazzi in fila, qui si ripete tale e quale ma poichè in questi casi la gente non è disposta in file regolari, l’effetto finale è quello di un ammasso ancor più consistente. É come se avessimo più file affiancate che, fotografate come s’è detto, appaiono come un muro fatto di persone

Su La Repubblica viene mostrata questa foto per dimostrare l’affollamento nella zona del Quadrilatero a Bologna

La stessa via, ripresa dall’alto, mostra che in realtà le persone si distanziano spontaneamente tra loro
Sui social, la gente che risiede nelle zone fotografate ha immancabilmente fatto notare che qualcosa non andava in quelle immagini di teleassembramento, producendo documentazione fotografica alternativa che mostrava realtà ben più in linea con l’esperienza comune, ossia poca gente in giro sempre ben distanziata.

Un breve filmato che mostra persone sui Navigli di Milano è stato quello maggiormente citato sui social a dimostrazione che c’è #TroppaGenteInGiro. Anche qui, in realtà, un banalissimo schiacciamento da teleobiettivo
Sono stati mostrati anche alcuni teleassembramenti video, ad esempio a Napoli ed a Milano. Il filmato di Milano, in particolare, è stato quello che più di tutti ha contribuito a diffondere e consolidare l’idea che le strade italiane fossero cortissime e piene di gente che se ne fregava delle distanze di sicurezza.

Anche qui banale schiacciamento da teleobiettivo
Mercati e strade commerciali sono le ambientazioni preferite da chi realizza teleassembramenti fotografici perchè abbinano una certa quantità di gente in ambienti lunghi e stretti, perfetti per massimizzare l’effetto schiacciamento dei teleobiettivi.

Sia Repubblica che l’Huffington Post han pubblicato foto e video di una Napoli affollatissima, sempre con teleobiettivo in vie lunghe e strette
Le caratteristiche dei teleassembramenti si ripetono costantemente: una volta imparato a distinguere le immagini realizzate con teleobiettivo ed a “leggere” l’alterazione delle distanze queste appaiono immediatamente visibili e la continua ricorrenza a mercati e vie molto lunghe non fanno che riconfermare il tutto.

Verificare le effettive misure dei luoghi in cui sono stati ritratti teleassembramenti dimostra in modo definitivo l’inconsistenza degli stessi
Oltre i teleassembramenti
La stagione dei teleassembramenti é durata ben pochi giorni, giusto quel tanto perché il concetto che c’è #TroppaGenteInGiro si diffondesse e radicasse a sufficienza. Fin da subito difatti sono circolate controprove da parte di chi abita nei luoghi fotografati e polemiche locali, come nel caso del teleassembramento di Sestri in Liguria. Cittadinanza locale che non ci sta ad esser presa in giro ed amministrazioni comunali che non voglion esser tacciate di inefficienza han contribuito a far smorzare l’uso di teleassembramenti sui media commerciali ma ciononostante, una volta diffuso il concetto, nei giorni successivi è stato sufficiente pubblicare articoli in cui il teleassembramento veniva dichiarato ma non mostrato, anche se spesso ciò ha portato ad esiti abbastanza ridicoli: articoli e servizi TG che dovevano comunque mostrare delle immagini hanno denunciato la presenza di #TroppaGenteInGiro mostrando foto di strade deserte in cui l’unica presenza era quella della polizia o uno sparuto numero di persone.

Così tanta gente in gir… si vedono solo due poliziotti!

…ancora poliziotti

Troppa gente in giro: una giornalista e dei piccioni…
L’ennesimo cortocircuito si è poi verificato tra la prima e seconda settimana di aprile con la riapertura di diverse aziende che ha portato ad un aumento di persone in giro per “giusta motivazione” prontamente denunciata come un criminoso aumento di “furbetti” anche da quelle stesse persone che hanno invocato la riapertura delle attività produttive.
Una volta consolidato il refain, la macchina ha potuto proseguire per inerzia. Oggi è sufficiente una notizia su una singola persona che se ne stava in giro senza “giustificato motivo” per riavvivare la gogna social e riconfermare mediaticamente la presenza di #TroppaGenteInGiro
I pochissimi casi in cui effettivamente le distanze tra persone non son state rispettate ovviamente son state sommate al calderone, in una giostra ove questi pochissimi casi indiscutibili son serviti solo a confermare l’autenticità dei numerosissimi teleassembramenti posticci facendo credere che il fenomeno fosse enormemente più diffuso di quanto fosse in realtà.
Profezie autoavveranti
La paura degli assembramenti genera assembramenti… che diffondono l’indignazione contro gli assembramenti!
E’il caso dei blocchi stradali “antifurbetti” attuati dalle forze di polizia perchè convinte che troppa gente non stia rispettando la legge. In questi blocchi vengono controllate uno ad uno i veicoli su un determinato tratto stradale causando un blocco del traffico che, anche con poche auto in giro, ovviamente genera code (specie se ciò avviene nei pressi di grandi centri urbani).
In pratica è il blocco stesso a generare le code che, fotografate, vengono raccontate dai media come “esodo di furbetti”, diffondendo così ulteriormente la convinzione che vi siano masse abnormi di persone in strada e perdipiù senza “giusta motivazione”.

Fantastica serie di post de La Repubblica che dopo aver lanciato un allarme-fuffa viene costretto a rettifiche continue a causa delle numerose controprove e testimonianze dirette
Anche in questo caso, però si rileva che i numeri coinvolti riguardano una percentuale infinitesimale della popolazione urbana e, di questa, solo una frazione minima (grossomodo tra l’1,5% ed il 3% dei fermati) risulta essere priva di “giusta motivazione” (il che, ribadiamo, non vuol necessariamente dire contagioso)
Aria, Asfalto, Asintomatici, Mascherine
Runner e pisciatori di cani sono pur sempre dei personaggi-feticcio ben identificabili ed i teleassembramenti un qualcosa di distante dal percepito quotidiano. Ma, si sa, se si vuol scatenare una paura profonda, indiscutibile e capace di far dire a tutti spontaneamente #RestiamoAlChiuso bisogna ricorrere ad un orrore lovecraftiano, un orrore che ci circonda ovunque e che è intrinseco alla realtà stessa. Anche questa strada è stata battuta: non sono mancati difatti articoli che, pur contraddicendo tutto quel che vien riferito dall’OMS, han sostenuto che il virus potesse circolare per diverse ore nell’aria e resistere per giorni nell’asfalto o in altri materiali comuni. Il virus nell’aria e nei materiali comuni significherebbe sostanzialmente che tutto è contagioso! Tutto al di fuori di quella minima porzione che controlliamo direttamente, ossia la casa.
Moltiplicare e generalizzare le possibili fonti di contagio non fa che aumentare i livelli di paranoia e spostare ulteriormente l’attenzione dalle problematiche reali e sistemiche: l’inquinamento della val Padana (una delle zone più inquinate d’Europa), le polveri sottili e gli allevamenti intensivi, da più parti sospettati di essere correlati all’incidenza del contagio, spariscono dal discorso pubblico a favore di runner, materiali vari e contagio nell’aria. E dunque #RestiamoAlChiusoInCasa: il terrore è ovunque! Nell’aria, nei materiali di costruzione, magari anche nell’acqua, nei fili d’erba e nei canarini che cantano!
La paura per un qualcosa di impalpabile e presente ovunque, come già visto, porta irrimediabilmente alla creazione di capri espiatori e feticci e se questa paura riguarda l’intera materialità del mondo, la feticizzazione avviene… su ciò che ci difende da questa materialità! Ecco che fin da subito si è provveduto a pratiche come la disinfezione del manto stradale nonostante lo stesso ministero della salute dica che non vi sono prove scientifiche che possa servire a qualcosa (oltre ad inquinare il terreno), o l’insensata disinfezione delle zampe degli animali.
Se la paura per l’aria e per le superfici rischia di essere troppo totalizzante e sconnessa dalla realtà scientifica, è nella figura dell’asintomatico che invece si riscontra il mix perfetto attraverso il quale mantenere viva la paura.
La figura dell’asintomatico ripropone il topos cinematografico dell’appestato invisibile: “sembra come noi, parla come noi… ma è il male”. Come nel film La Cosa o ne L’invasione degli ultracorpi, il terrore verso un orrore invisibile che si nasconde nell’altro è totale. Chiunque rappresenta presumibilmente un pericolo potenziale ed è dunque per il semplice fatto che gli asintomatici esistano che si giustificano misure marziali. Come ogni arabo-islamico post 11 settembre è stato considerato una potenziale minaccia, oggi ogni persona che non mostra alcun segno di malattia vien considerata una potenziale minaccia.

L’idea di una pandemia globale è già molto radicata nell’immaginario collettivo (a sinistra The Walking Dead, a destra The Coronavirus)
E’interessante osservare che nel dopo 11 settembre il mondo del cinema e della letteratura fantastica ha esplorato con un certo interesse l’idea di pandemia globale. Da Contagion a 28 giorni dopo, The Walking Dead, il remake de L’alba dei morti viventi, Stake land e La terra dei morti viventi solo per citare alcuni tra i più noti, si osserva che il terreno maggiormente esplorato è quello dell’apocalisse zombi, ossia di un mondo post-pandemia completamente stravolto, in cui la paura invisibile del terrore globale e di massa è esorcizzata facendosi orrore manifesto: gli zombi sono riconoscibili a differenza degli ultracorpi e per quanto terribile, saper riconoscere con chiarezza il male è comunque un qualcosa di rassicurante. Tuttavia l’inquietudine permane su un altro livello e si sposta all’interno di una società allo sfascio in cui ognuno pensa solo a sé stesso. Il vero male, nelle opere di apocalisse zombi, è una società residuale che fa male a sè stessa. Pandemia e zombi, terrorismo e paura dell’altro, legati in modo indissolubile.
La figura dell’asintomatico, rappresenta dunque una paura ancora da esorcizzare, un qualcosa da cui proteggersi e che a sua volta deve proteggere gli altri da sé stesso, da segregare e tener lontano da noi attraverso…qualsiasi cosa. E così come la paura dell’asfalto contagioso è stata esorcizzata col feticcio della disinfezione del manto stradale, la paura dell’asintomatico viene adesso esorcizzata con la feticizzazione delle mascherine.
Gli operatori sanitari sono chiari in proposito: le mascherine sono utili se usate adeguatamente, in determinate condizioni e se abbinate a corrette prassi di igienizzazione delle mani. Se usate in maniera incorretta, al contrario, rischiano addirittura di diventare una fonte di contagio.
Quella che si sta imponendo invece è una narrazione feticistica della mascherina, descritta come una sorta di oggetto-talismano che secondo alcuni governatori locali bisognerebbe utilizzare addirittura sempre quando si sta all’aperto (nonostante il ministero della salute ribadisca chiaramente il contrario) e che viene distribuita senza sufficienti indicazioni su tutte le prassi da seguire per il suo utilizzo corretto.

Con una mossa ben poco avveduta, il governatore del Veneto ha distribuito mascherine del tutto inadatte al loro scopo. L’operazione riflette appieno l’idea di feticizzazione della mascherina-talismano LINK
Mascherina o no, probabilmente nei prossimi tempi osserveremo un assestamento della narrazione sulla figura degli asintomatici con tutto ciò che questo potrebbe comportare a livello di spettacolarizzazione politica, ossia l’uso obbligatorio delle mascherine nei luoghi pubblici, impossibilità di fare il tampone a tutti, la possibilità che i guariti contraggano di nuovo il virus ma senza presentare sintomi, ecc.
Già oggi diversi indicatori come i dubbi sull’effettività degli anticorpi lasciano intendere che le misure di prevenzione potrebbero dover essere applicate a lungo e ciò potrebbe dunque portare anche all’estensione del lockdown generalizzato. Al tempo stesso si assistono a diversi tira-e-molla dovuti al variare degli interessi in gioco: se all’inizio è stato osservato che il virus colpiva quasi esclusivamente persone molto anziane e/o già indebolite da altri fattori, successivamente l’ondata di panico mediatico ha enfatizzato il fatto che il virus colpisse persone di tutte le età. A metà aprile 2020, con le pressioni per la riapertura delle aziende, molti quotidiani hanno improvvisamente ridotto le informazioni su decessi tra persone giovani e di mezz’età.
Il punto anche qui è lo stesso: una cosa sono le misure di contenimento per evitare la diffusione del contagio, ma tutt’altra cosa è usare la paura nei confronti degli asintomatici per imporre forme di controllo di tutt’altra natura con la scusa della prevenzione. Forme di controllo che non rallenteranno la diffucìsione del virus con cui rischiamo di dover convivere per decenni.
The day after
Un contenimento anche molto rigido ma gestito globalmente in base a criteri medici e con un’attenzione particolare sulle prassi sanitarie anticontagio permetterebbe forse di giungere in tempi relativamente rapidi ad una situazione di normalità. Di certo, un contenimento incentrato su meri principi legalitari, peraltro disgiunti da criteri medico-scientifici, per forza di cose non potrà che prolungare la durata dell’emergenza.
Di certo, in ogni caso, quello che si prospetta è il passaggio ad un “dopo” che avverrà a scaglioni/ondate.
Ma di che razza di “dopo” stiamo parlando? Come ogni momento di crisi, anche la pandemia globale ha messo a nudo numerose debolezze sistemiche e contraddizioni globali ed in molti si augurano che ciò faccia aprire gli occhi a sufficienza perché nel “dopo” queste siano risolte e superate. Dal superamento del PIL come metro del benessere ai redditi di cittadinanza, dalla creazione e miglioramento di un sistema sanitario pubblico globale ad un senso di collaborazione internazionale più forte, passando per forme di produzione rispettose dell’ecosistema, sono numerose le richieste e speranze che circolano.
È però necessario fare tesoro delle esperienze passate e cogliere i segnali che giungono quotidianamente da più parti: anche al termine dello sconvolgimento della Grande Guerra, la prima guerra globale della storia, serpeggiavano speranze di un futuro senza più conflitti (concetto che in qualche modo potrebbe aver pure aiutato lo scoppio della seconda guerra mondiale). Forse si tratta, almeno in parte, di una risposta umana dinnanzi a crisi profonde.
Prospettare un futuro migliore e lavorare per esso è doveroso, ma guai a confondere l’ideale con l’illusorio.
Ciò si riflette anche nelle parole di Evgeny Morozov che ricorda che nonostante le prospettive migliorative siano tutte realizzabili e sensate, la resilienza del sistema attuale è talmente forte e pervasiva che il rischio è che molto probabilmente il “dopo” virus significherà essere catapultati solamente in una fase più avanzata del tardo capitalismo caratterizata da quello che definisce il “soluzionismo” ossia una sorta di T.I.N.A. thatcheriano alla massima potenza in cui le peggiori imposizioni verranno da governi totalmente demandati a logiche aziendali che faranno di tutto per dissuadere sviluppatori, hacker, attivisti e altri dall’usare le loro capacità e le risorse esistenti per sperimentare forme alternative di organizzazione sociale e che al tempo stesso vorranno incasssare una parte dei profitti che derivano dalla sorveglianza. Il tutto imponendo nella società l’idea che
“[…] si possa evitare di affrontare le cause di un problema, concentrandosi invece sull’“adeguare” i comportamenti individuali alla crudele, ma immutabile, realtà.
Oggi siamo tutti soluzionisti: il covid-19 sta allo stato soluzionista come l’11 settembre sta allo stato di sorveglianza. Tuttavia le minacce che (il soluzionismo) pone alla democrazia sono più sottili, e quindi più insidiose.”
[…] il mondo tecnologico in cui viviamo oggi è stato progettato per garantire che non possa emergere alcuna alternativa a un ordine globale basato sulle logiche di mercato.”
Il mondo del “dopo” virus rischia appunto di veder affermare una realtà in cui il pensiero dominante normalizzerà l’idea che ‘le cose stanno così, quella che propone il governo è l’unica soluzione e ti conviene accettarla perchè non ci sono alternative e se la critichi non sei dei nostri ma sei uno degli altri’. Una visione in cui
“[…] i corpi e le istituzioni intermedie scompaiono […] esistono (solo) cittadini-consumatori, aziende e governi. In mezzo non c’è molto altro: né sindacati, né associazioni di cittadini, né movimenti sociali, né istituzioni collettive tenute insieme da sentimenti di solidarietà.
Non è un caso, difatti, se le attuali piattaforme commerciali di comunicazione e socializzazione sono incentrate principalmente su intrattenimento e spettacolarità rivolte al singolo individuo anzichè su dibattito costruttivo, collaborazione e socializzazione e questo fa sì che all’interno di esse non sarà mai possibile costruire nulla di valido perchè
“Sarà, nel migliore dei casi, l’ennesimo parco giochi per soluzionisti. Nel peggiore, una società totalitaria fondata su controllo e sorveglianza diffusi”
Questo è il mondo che andava lentamente prospettandosi prima del Coronavirus ed è questo il mondo in cui probabilmente ci troveremo catapultati nel “dopo” emergenza.
L’ha ripubblicato su Quite Verbatim.
Grazie per questo minuzioso lavoro.
Hai scritto tutto quello che c’era da dire!